Patrese 70 tra Senna, la Ferrari e l’erede

Dietro la curva c’è un nuovo traguardo. Riccardo Patrese sta per compiere 70 anni, ma quando lo guardi ti viene da ricontrollare le date. Dopo due mogli, cinque figli,quattro nipoti e 256 gran premi, sembra ancora molto più giovane di quello che è. “Mi fa effetto pensare ai 70 perché di spirito mi sembra di esser sceso ieri da una Formula 1… ma ho avuto una vita molto movimentata, sempre di corsa dietro ai figli”.

Tutti cresciuti pane e sport.

“Ho sempre pensato fin da ragazzino che lo sport è una scuola di vita, importante anche per l’educazione morale. Facendolo in modo agonistico devi seguire una routine di rigore, applicazione e serietà che alla fine ti serve comunque nella vita”.

E lei non si è mai accontentato di partecipare.

“Sono sempre stato un agonista. Partecipare non mi è mai piaciuto. Io volevo vincere anche a biglie sulla spiaggia. Cercavo di dare qualcosa in più”

E alla fine, al quarto figlio, è riuscito a trasmettere la passione per i motori.

“Non ho fatto niente per trasmettere la passione a Lorenzo, anzi io l’ho messo a cavallo e quando era under 14 era tra i migliori cavalieri in Italia, ha vinto anche una Coppa delle Nazioni. Il suo sport doveva essere l’equitazione, poi un giorno si è svegliato dicendomi che voleva provare un kart. Gli ho detto di no, ma alla fine l’ha vinta lui…”

Non sembra abbia sbagliato strada.

“Mi ha convinto di avere talento e poter diventare un buon pilota, di poter puntare a fare il professionista. Gli ho visto fare cose non proprio normali già a 16 anni. Nellasua stagione da rookie in Formula 4, prima che decidessimo di scendere dalle monoposto per puntare alle ruote coperte, lui era in pole a Monza davanti a un certo Oliver Bearman che ha fatto un discreto debutto in Formula 1. Insomma avrebbe potuto far bene anche lì, ma ormai arrivare in Formula 1 è come andare su Marte”.

Ha corso in Formula 1 dal 1977 al 1993, ha attraversato l’epoca d’oro affrontando gente come Lauda, Hunt, Piquet, Mansell, Prost, Senna, fino al giovane Schumacher. È arrivato una volta secondo e due volte terzo nel campionato. Sono più le gioie o i rimpianti?

“Rimpianti non ne ho, come posso avere impianti in una carriera  di successo che mi ha permesso di vivere meravigliosamente. Sono ancora qua in discreta salute…”.

Ci sono state delle sliding doors che, prese da un’altra parte avrebbero potuto portarla sulla Williams campione con Jones nel 1980 o sulla Brabham campione con Piquet nel 1981. Neppure questo rimpiange?

“Nessuno mi ha obbligato a fare certe scelte e quando le ho fatte avevo dei motivi, delle prospettive”.

Come quella lettera firmata con Enzo Ferrari?

“Quando ti chiama Ferrari aspetti. L’ho incontrato dopo il Gp del Sudafrica del 1978 nel suo ufficio che era cupo e mi intimoriva. Stava pensando di mettermi al posto di Gilles”.

E invece?

“Poi Gilles si riprese, vinse in Canada e Ferrari che lo considerava una sua creatura e gli voleva bene lo confermò. Rimasi in attesa per un po’, ci sentivamo al telefono e mi faceva capire che un giorno gli sarebbe piaciuto avermi. Ci ho sperato fino al 1981”

La Ferrari è poi tornata d’attualità ai tempi di Fiorio che la voleva accanto a Senna nella sua squadra dei sogni.

“Me lo disse e lo raccontò anche ad Ayrton al quale l’idea piaceva”.

Voleva un compagno veloce che lo stimolasse. Così racconta Fiorio. A proposito un’altra occasione sfiorata fu proprio la Williams di Ayrton dopo Imola?

“Ero stato a Imola. Avevo incontrato Frank, Patrick Head e lo stesso Ayrton. Avrei dovuto fare il collaudatore per mettere a punto un’auto che aveva un sacco di problemi con le sospensioni tradizionali. Con Ayrton ci demmo appuntamento ai test…”.

Che rapporto avevate?

“Eravamo amici, ci rispettavamo. Qualche volta in pista ci siamo mandati a quel paese come si faceva ai nostri tempi, quando ci gestivamo tra di noi le cose senza intrusioni della federazione. Io contavo di tenermi in forma con e test e poi magari rientrare accanto a Senna nel 1995”.

E invece arriva la domenica maledetta.

“L’ho vista da casa. Non potevo credere che una cosa del genere potesse essere successa alla Williams. Mai pensavo potessero avere un guasto. E poi Ayrton era il miglior pilota del mondo… Dopo qualche settimana Frank mi disse che non aveva più bisogno di un collaudatore, ma di un pilota. Presi tempo…”.

Fu tentato?

“Ero attratto dall’idea di tornare a correre, ma era morto il più forte, il più bravo, su una macchina che per anni avevo considerato la più sicura. E se l’incidente era successo a lui, sarebbe potuto capitare anche a me…”.

E poi?

“Non me la sentii. Il dolore fu così profondo che non riuscivo a dormire di notte.”

Possiamo chiamarla paura?

“Sì proprio così. Non ho mai avuto paura, ma quando ho cominciato ad avere dei dubbi , a capire che non sarei riuscito a dare il 101% perché avevo timore che mi sarebbe potuto accadere qualcosa di brutto… Avevo rischiato tanto in 17 anni di Formula 1, anche con incidenti molto spettacolari come quello con Berger all’Estoril. Non me la sentivo più di sfidare il destino”.

La morte l’aveva sfiorata in altre occasioni?

“Pensate all’incidente di Elio De Angelis nel 1986, quando si staccò l’alettone della Brabham. Su quell’auto dovevo esserci io, ma lui mi chiese di cedergli il test. Mi sono sentito come quello che perde un aereo che poi cade… Ho avuto occasioni in cui il fato è stato con me. Non me la sono sentita di sfidare il destino una volta in più”.

Che cosa le manca di più. L’adrenalina?

“Quella ho continuato a sentirla andando a cavallo dove forse ho rischiato più che in macchina. Mi manca l’ambiente di quel tempo, le sfide con grandi piloti e con macchine che erano toste da guidare, circuiti anche pericolosi, ma che non perdonavano se uscivi. Riuscire a essere il più veloce ti dava una grandissima soddisfazione”.

All’inizio non era così.

“Prima dovevi fare gavetta, dovevi fare esperienza. Ti venivano a osservare nelle formule minori, poi investivano su di te. Nella prima parte della carriera poi non c’era la telemetria, non sapevano quello che facevo, non mi potevamo parlare o dire che cosa fare. Ero solo con la macchina e dovevo trasmettere le mie sensazioni agli ingegneri. E i team cercavano anche piloti che sapevano migliorare il progetto

Oggi sono un po’ telecomandati i piloti?

“Sono super telecomandati. Dai box vedono talmente tante cose che possono dare dei consigli. Ai miei tempi non sapevo neppure di aver vinto a Monaco perché non c’era comunicazione radio con i box. Adesso il 99% del lavoro viene fatto a casa tra simulatore e computer. Allora lo facevamo in pista e magari provavamo dei pezzi che si staccavano… Ho fatto più incidenti in prove private che in gara…”.

Dei piloti di oggi chi si eleva più degli altri?
“Anche ai miei tempi dovevi avere una macchina vincente per dominare. Ho visto solo due piloti vincere con auto inferiori: Ayrton e Schumacher. Oggi ci sono piloti come Hamilton e Verstappen che hanno dominato anche per le auto che guidavano o guidano. Ma sono piloti che avrebbero fatto bene anche a miei tempi. Sono piloti che hanno un talento superiore. Avrebbero fatto la differenza anche in un’altra epoca”.

Si era accorto subito che Schumacher aveva qualcosa di speciale?

“Subito. Dal primo giorno di test. Faceva cose che mi hanno fatto capire che era meglio di uno buono. Ho subito capito che avrei avuto un compagno molto forte e arrembante. Era sempre al 110%. Non gli importava se la macchina non era a posto. Lui spingeva dal primo all’ultimo giro. Quella è la forza dei giovani, hanno fame di affermarsi”.

E lì cominciarono i problemi con Briatore?

“Diceva che ero da pensione perché mi preoccupavo di migliorare la macchina.D’altra parte io avevo guidato fino all’anno prima una macchina vincente… Sapevo la differenza. Ma lui era convinto che chiunque sarebbe andato meglio. Peccato che poi sono arrivati Lehto che si è rotto la schiena al primo test, Herbert e papà Verstappen che tutti insieme hanno fatto meno punti di me…”.

Michael era ingiocabile?

“A parità d’età con Michael me la sarei potuta giocare sul piano dell’essere selvaggio. Ma dopo tanti anni mi preoccupavo più di migliorare la macchina che di limare un decimo. Briatore non lo aveva capito. Nell’ultimo periodo l’aria era diventata irrespirabile e io non vedevo l’ora che finisse. Tutti i team in cui avevo lavoravano mi hanno stimato. Lì mi facevano sentire un peso”.

Non era la prima volta in un ambiente pesante. Dopo le accuse per l’incidente di Monza che provocò la morte di Peterson, deve esser stato anche peggio?

“Da parte dei piloti. Finii sotto processo con un Pm che non capiva molto di automobilismo. Dopo tre anni mi mandarono a processo al tribunale di Milano dove fui assolto. Fu durissima. Ma quell’episodio mi influenzò molto. Dopo mi chiusi a riccio. Diventai antipatico”.

Non fu facile neppure con i colleghi, tra Hunt e Lauda…

“Arrivarono a rigiudicarmi in un motor home a Watkins Glen. Volevano decidere se io dovevo correre o no. Ma poi, a parte Hunt, sono venuti a scusarsi. Anche molto tempo dopo come Lauda quando ormai era già commentatore tv. E Lauda lo avevo dovuto affrontare quasi fisicamente anche nel 1985 dopo un incidente a Montecarlo con Piquet… Quando ha ritirato fuori la storia che ero un pilota pericoloso, l’ho quasi attaccato al muro… Abbiamo dovuto aspettare il 1990 per avere un rapporto normale”.

Oggi non si mandano quasi più neppure a quel paese.

“Eravamo più istintivi, più spontanei in tutto. Anche nel modo di correre. E comunque non ricordo un incidente grave per colpa di un duello con il coltello tra i denti tra due piloti. Gli incidenti gravi avvenivano per una rottura o un’incomprensione come quello di Gilles o il  mio con Berger che anni dopo ammette di aver fatto una stupidata rientrando di colpo ai box senza segnalarlo dopo dieci giri di gomitate in pista”.

Scelga la vittoria più bella?

“Imola 1990, perché Imola è un po’ la pista di casa e poi mi ha permesso di rifarmi dopo l’errore del 1983 quando buttai via la vittoria”.

Quel boato dei tifosi ferraristi le fece male?

“Avevo il casco. L’ho sentito solo dopo. Ma ero talmente incazzato per il mio errore, per esser uscito sul brecciolino che non preoccupai della polemica”.

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umberto zapelloni

Nel 1984 entro a il Giornale di Montanelli dove dal 1988 mi occupo essenzalmente di motori. Nel gennaio 2001 sono passato al Corriere della Sera dove poi sono diventato responsabile dello Sport e dei motori. Dal marzo 2006 all'aprile 2018 sono stato vicedirettore de La Gazzetta dello Sport

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