Parla Todt: io la Ferrari, Schumi, Leclerc e Vasseur

Jean Todt resterà legato alla Ferrari per tutta la vita. Lo ribadisce stamattina in una lunga intervista con Frédéric Ferret per L’Équipe. È stato alla guida di Maranello dal 1993 al 2009, l’età dei successi di Schumacher e ha accettato di parlarne a condizione di tener fuori dalle chiacchiere l’attuale guida della gestione sportiva, Frédéric Vasseur.

 «Ho esordito in un GP di Francia, il giorno dopo la 24 Ore di Le Mans, dove ero con la Peugeot. Il weekend fu complicato, Gerhard Berger 14esimo, ritiro di Jean Alesi. Quindi la mia prima decisione è stata quella di trattenere il lunedì il team operativo e i piloti a Magny-Cours, per fare dei test. Sono arrivato a Maranello il lunedì mattina. Avevo una casa a cinque chilometri dalla fabbrica. Una casa molto carina, tra l’altro. L’interno era squallido, ma la casa era in una posizione affascinante. L’ho affittata, tutti continuavano a dirmi che non sarei durato molto alla Ferrari. Ho sempre avuto questo pensiero, che fosse inutile spendere tanto quando rischiavo di andarmene dall’oggi al domani. Un giorno un amico, grande collezionista di Ferrari, Chip Connor, mi riporta con il suo aereo da Montreal a Bologna. Dorme a casa mia e il giorno dopo lo porto a visitare la fabbrica. È una persona molto educata e cortese. Vado a farmi la doccia e quando torno mi sento un po’ in imbarazzo. Mi dice che la sua doccia non funzionava. È stato un fattore scatenante. Ho fatto dei lavori e ho restaurato la casa. Ma nel frattempo erano passati 12 anni».

Ha sempre avvertito pressione?

«Conoscevo il peso delle aspettative. Ma non credevo fino a quel punto. La Peugeot era un’azienda sportiva ma nulla eguaglia la Ferrari. C’era un giornalista della Gazzetta che a tempo pieno si accampava lì dalla mattina alla sera per vedere cosa facevamo. C’era anche pressione a livello di azionisti, a livello di gruppo. Quando sono arrivato, la Ferrari era un’opera d’arte in rovina. Tutto era in pessime condizioni. La parte del telaio era stata completamente abbandonata. In compenso, il reparto motori era a posto. Poca produzione, ma tutta la ricerca e lo sviluppo si svolgeva in Inghilterra, sotto la direzione di John Barnard. La nostra galleria del vento era piena di polvere, usata come magazzino. Ma c’era un grande strumento che poi è andato perduto a causa del divieto di prova, ed è la pista di Fiorano».

 Ha preso lezioni di italiano?

 «Sì, la stampa aveva grande influenza, specialmente la stampa italiana, e allora capii che avrei dovuto parlare italiano. Quando mi parlavano dell’avvocato Agnelli, dicevano che ogni mattina, alle 6, aveva letto tutti i giornali. E nel frattempo mi chiamava Montezemolo per fare il punto. E poi anche Agnelli, che chiedeva cosa stesse succedendo».

Come è stata la vita a Maranello per il boss della Scuderia?

«All’inizio non sono stato accolto molto bene, come un francese che non sapeva nulla di F1 e che sarebbe rimasto al massimo per due anni. Che ero venuto per i soldi. Nel corso dei mesi, la percezione è cambiata, si sono resi conto che non ero venuto per fare il turista. Ero il primo la mattina in ufficio e spesso me ne andavo per ultimo. Quando era necessario esserci, io c’ero».

 Rimpiange qualcosa?

«Ho lasciato la Ferrari il 1° aprile 2009, ma non passa giorno senza che qualcuno mi ricordi che sono legato a lei per tutta la vita. Gran parte della mia notorietà viene dalla Scuderia. Quest’inverno, in Indonesia, ho dovuto far firmare dieci Ferrari agli ospiti dell’albergo. Perché è la Ferrari, ma anche perché il periodo tra il 1993 e il 2008 è stato quello in cui la Ferrari ha vinto di più, sei titoli piloti e otto costruttori. Abbiamo creato una storia incredibile con Michael Schumacher».

 Ha una spiegazione per questo successo?

«La spiegazione? (Pensa) Prima risolvi il problema del pilota. Una volta che ho ingaggiato Michael, in fabbrica nessuno poteva dire che fosse colpa del pilota. Il colpevole diventava il telaio o il motore. Poi ho cercato gli uomini, e quando li ho trovati, li ho tenuti. La stabilità è una cosa molto difficile da ottenere».

Con Schumacher è stato facile, vero?

«All’inizio non c’era altro che rispetto reciproco. Aveva chiesto di avere una clausola rescissoria nel suo contratto; se me ne fossi andate, poteva andarsene anche lui. Nel 1996 girava voce che fossi stato licenziato. I giornalisti ne hanno parlato a Michael un giorno mentre stava facendo dei test. Rispose: – Se Jean parte, me ne vado anch’io. Finirono le voci sul mio addio».

 È orgoglioso oggi di vedere che la Ferrari si affida ancora una volta a un francese per provare a vincere?

«Hanno preso un professionista, non hanno preso un francese. Non si sono detti: – Prendiamo un francese per vincere. Hanno detto: prendiamo un professionista». 

 Ora che non è più presidente della FIA, sarà contento se la Ferrari ricomincia a vincere?

«Sarebbe un bene per la Formula 1. È divertente perché anche Stefano Domenicali ha lavorato in Ferrari. È stato con me per sedici anni, ho partecipato alla sua formazione perché era a tre metri dal mio ufficio e gli urlavo addosso tutti i giorni. Sono orgoglioso che sia lui a guidare la F1».

 Ma lei personalmente…

«Mio figlio è il manager di Charles Leclerc. Nicolas lo ha preso su consiglio di Jules Bianchi, che stava con mio figlio fin dall’inizio. La morte di Jules è un dolore eterno. Anche per me, penso spesso alla sua famiglia. Se Charles vince, sarò felice per lui; sarò felice per mio figlio; sarò felice per la Ferrari. È una faccenda sentimentale». 

Vedi anche Giocate con la Formula Fantasy di TopSpeedBlog

Share Button
umberto zapelloni

Nel 1984 entro a il Giornale di Montanelli dove dal 1988 mi occupo essenzalmente di motori. Nel gennaio 2001 sono passato al Corriere della Sera dove poi sono diventato responsabile dello Sport e dei motori. Dal marzo 2006 all'aprile 2018 sono stato vicedirettore de La Gazzetta dello Sport

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.