Il 18 gennaio è un giorno speciale. Il 18 gennaio 1950 lo è ancora di più perché quell’anno sono nati due dei miei eroi sportivi: Gilles Villeneuve e Dino Meneghin. Due persone che non potrebbero essere così diverse, ma che in comune hanno un particolare: sanno entrare nel cuore dei tifosi.
Ecco i due ritratti che ho dedicato a Gilles e Dino (insieme a Dan Peterson) nei miei ultimi libri Centauria (La Storia della Ferrari in 50 ritratti e La Storia del in 50 ritratti)
Gilles il capolavoro di Ferrari
Gilles è il capolavoro di Enzo Ferrari. Un pilota a cui ha voluto bene come a un figlio. L’unico che ha osato paragonare a Tazio Nuvolari per il suo ardimento, la sua capacità di ottenere il massimo anche da vetture che non valevano un granché. La sua assunzione fu una sorpresa per tutti, un azzardo che solo Ferrari poteva permettersi. Il progetto con cui dimenticare Niki Lauda e la sua fuga. L’idea per dimostrare al mondo che con una Ferrari poteva vincere anche un ragazzo venuto dalle gare di motoslitta sulla neve. Lo ha voluto, lo ha protetto. Per lui ha sofferto, gioito e pianto. Ha vinto meno di quanto sognasse, ma quanto è bastato per trasformarlo in un mito senza tempo.
Un nuovo termine di paragone per le generazioni future. “Un puro”, come lo definisce Mauro Forghieri. Un uomo capace di radunare le folle anche attorno ad una pista dell’aeronautica per un’esibizione. I suoi numeri, due pole, sei vittorie in 66 gare in rosso non raccontano nulla della sua grandezza. Ma le sue imprese, a Digione dove non ha vinto ma battendo Arnoux nel ruota a ruota più visto di sempre ha fatto passare inosservato il vincitore o a Montecarlo e Jarama i luoghi dei suoi trionfi con il turbo, sono ancora oggi tra le più cliccate in rete. Suo figlio Jacques ha reso onore al suo cognome scrivendolo nell’albo d’oro del Mondiale. Ma quando si scrive che qualcuno ha “corso alla Villeneuve” si pensa a Gilles e quel suo modo di interpretare la vita e le corse sempre al massimo, alla ricerca del limite che inevitabilmente gli capitava di superare anche in mare, in cielo o in autostrada.
Per lui scoppiò una vera e propria febbre. Un’adorazione che poteva sembrare ingiustificata per chi si fermava alle cifre, ma che era invece frutto del suo modo di interpretare ogni sorpasso, ogni giro veloce, anche su tre ruote, anche con un alettone che gli oscurava la vista. Imprese senza un senso logico, se non quello di provarci sempre e comunque. Di dare il massimo in ogni situazione anche quando le gomme non ti permettono di forzare, ma tu ti sei messo in testa di migliorare il tempo del tuo compagno che una volta era stato anche tuo amico. Gilles aveva un grande senso dell’amicizia. Aveva aiutato Scheckter a diventare campione del mondo e riteneva che in quel 1982 Pironi avrebbe dovuto fare altrettanto con lui.
Meneghin sarebbe stato un campione comunque
Se fosse stato alto 1 metro e 60, sarebbe diventato uno dei migliori fantini del mondo. Se fosse stato alto un metro e 70, sarebbe diventato un grande giocatore di calcio. Se non si fosse annoiato a lanciare il peso e il disco, avrebbe vinto un oro olimpico. Se non si fosse trovato un pallone tra le mani, sarebbe diventato un grande architetto. Per fortuna del basket Dino Meneghin è cresciuto fino 2 metri e 04 centimetri ed è diventato il miglior giocatore italiano di sempre. Dino Meneghin è stato il più grande vincente nella storia del basket italiano, forse anche di quello europeo e, certamente, fra i più vincenti del mondo! I suoi record non verranno mai superati da un giocatore “protagonista” come lui: 12 scudetti in Italia, 7 a Varese e 5 a Milano, più altre tre finali con l’Olimpia; 7 Coppe dei Campioni, 5 con Varese e 2 con Milano, poi altre 5 finali con l’Ignis Varese; 28 stagioni in Serie A-1 (1966-94), da 16 a 44 anni; Italian Basketball Hall of Fame; FIBA Hall of Fame; Naismith Hall of Fame negli USA, uno dei pochi a ottenere la tripletta. In Italia lo chiamano “Monumento Nazionale”. Hanno ragione.
Dino Meneghin, un post-pivot di 204 cm e 105 kg, è stato anni avanti ai suoi tempi per il suo atletismo, paragonabile a David Cowens nell’NBA: grande fisico, grande elevazione, grande coordinazione, grande rapidità dei piedi in spazi brevi, grande velocità a tutto campo. Oltre a questo, aveva una grande versatilità, era in grado di giocare post alto o pivot basso, spalle a canestro o faccia a canestro, realizzare in sospensione, in entrata o con il gancio. Faceva i suoi punti sempre, ma il suo grande valore era nel contributo alla squadra: passaggi smarcanti, aiuti difensivi, difesa sull’uomo, taglia fuori, rimbalzi, intelligenza di gioco.
I numeri e le statistiche sono utili per farsi un’idea del giocatore. Ma non ci sono cifre che possano descrivere un super campione. Dino non è solo un grande giocatore; sa dare il meglio nei momenti più difficili. Nel 1986-87, l’Olimpia doveva vincere a Milano di 32 punti una gara di qualificazione di Coppa dei Campioni contro l’Aris Salonicco, dopo aver perso di 31 in Grecia. In quella che il suo compagno, Bob McAdoo, ha definito, “La partita più intensa della mia carriera,” Dino Meneghin ha preso l’Olimpia sulle sue spalle e giocando la partita della vita, trascinò Milano alla vittoria di 34 punti (83-49).
A Dino Meneghin non interessavano i numeri, i punti, i tiri, i minuti di gioco o altro. Interessavano due sole cose: la squadra e la vittoria. Era il sogno di ogni allenatore perché, pur essendo il Numero Uno, era disposto a sacrificarsi per la squadra. Leader, compagno, uomo spogliatoio, gran lavoratore in allenamento, grande campione in campo. Il più grande giocatore italiano di ogni tempo.
Ps: le immagini sono tratte da due miei libri pubblicati da Centauria. Quella di Gilles è di Alessandro Ventrella (vedi qui) e quella di Dino di Fer Taboada (vedi qui)